Aborto spontaneo: la mia esperienza lunga e psicologicamente devastante

Storia di un aborto spontaneo

L’8 Marzo 2019 ho scoperto di essere incinta del mio secondo figlio.
La mia gravidanza purtroppo si è interrotta a 6 settimane e qualche giorno per via di un aborto spontaneo.
Oggi 5 Novembre 2019 avrei avuto il termine per il parto, per questo ho scelto questo giorno per raccontare la mia esperienza, che è stata lunga e molto dolorosa psicologicamente.

Il giorno in cui è iniziato il mio aborto spontaneo

Era il 18 Marzo e quella mattina avevo appena rinnovato la patente. Ero un po’ agitata perché aspettavo i risultati di un esame del sangue che mi servivano per smentire un piccolo problema che era emerso nei precedenti esami.
Si è trattata di una manciata di attimi. Un momento mi sono sentita sollevata per via della scoperta che gli esami erano perfetti e che quel piccolo problema era dovuto ad una contaminazione avvenuta a causa di un errore commesso dove avevo effettuato i primi esami. Il momento dopo sono sprofondata negli abissi.
Ero in bagno a fare pipì, ma quando mi sono pulita ho visto una grande quantità di sangue. Mi si è gelato il sangue immediatamente, ho subito chiamato mia mamma, il mio ginecologo e la mia dottoressa per avere conforto e una spiegazione. Continuavo a sperare che non fosse così, ma dentro avevo capito quello che stava accadendo, tanto che non avevo neppure il coraggio di tirare la catena del bagno.
Poco dopo il sangue non accennava a fermarsi, così ho deciso di andare al pronto soccorso, dove mi hanno fatta immediatamente passare in attesa del medico.
Hanno subito effettuato l’esame per le beta, ma del dottore neanche l’ombra. Hanno quindi deciso di portarmi nel reparto maternità (che idea geniale). Ero su una barella che piangevo per la consapevolezza di quello che stava accadendo, ma loro hanno deciso di mollarmi in corridoio davanti alla porta di una stanza dove c’era una donna che aveva appena partorito. Non ho percepito alcun tipo di sensibilità e per questo mio marito, che è sempre stato al mio fianco, ha chiesto a gran voce di spostarmi di lì e mettermi da un altra parte.
Sono stata cinque ore su una barella in fondo ad un corridoio senza sapere se l’aborto era avvenuto o se si trattava solo di una minaccia. Mi hanno lasciata lì, venendo ogni tanto a dirmi di controllare se il sangue aveva smesso di fluire. Dopo ben cinque ore si è presentato un medico per visitarmi, che mi ha spiegato che a sei settimane non sempre si riesce a vedere il feto per cui, per quanto fosse abbastanza sicuro si trattasse di un aborto, non poteva escludere che in realtà fosse solo una minaccia. Così ha deciso  di tenermi lì per una notte, in attesa della perdita di sangue più abbondante che avrebbe ripulito tutto. Questa perdita non è arrivata, anzi il sangue si è fermato, per cui la mattina dopo il medico mi ha dimesso con la prescrizione di ovuli di progesterone per salvare la situazione se fosse stata una semplice minaccia.

La prima visita dopo una settimana

Dopo una settimana di riposo assoluto, in cui non mi sono mai mossa dal letto e dal divano, sono andata in ospedale per la visita di controllo che avrebbe dovuto dirmi se era stata una minaccia d’aborto o un vero e proprio aborto. Il medico non ricordava chi ero e cosa aveva visto con l’ecografia precedente. Me ne ha fatta un’altra in cui ha visto anche il sacco vitellino oltre alla camera gestazionale, ma non ha saputo dirmi se era un buon segno perché non ricordava più cosa aveva visto nella precedente ecografia, in cui tra l’altro non aveva scritto le misure della camera gestazionale per confrontarle con quelle di quel giorno.
Mi hanno detto di continuare con il progesterone e di tornare per un ulteriore visita che avrebbe dovuto finalmente svelare se questo embrione era presente oppure no.
Ho trascorso altri giorni a casa ferma, senza poter fare nulla, perché la prescrizione principale era il riposo. Mio marito e i miei genitori ogni giorno si sono alternati per badare a me, anche perché mi avevano detto che poteva venirmi un ulteriore perdita di sangue e in questo caso sarei dovuta tornare al pronto soccorso.
Dopo qualche giorno ho iniziato ad avere paura che potesse venirmi un’infezione, così ho chiamato il medico dell’ospedale per chiedergli di anticipare l’appuntamento, ma lui non ricordandosi nuovamente di me mi ha detto che se volevo anticipare dovevo di nuovo passare dal pronto soccorso.
Dopo questo comportamento ho deciso immediatamente di rivolgermi ad un medico privato per un altro parere.

La visita dal medico privato

Ho iniziato a cercare su internet il nome di un ginecologo privato e ho scelto quello che, a seconda dei giudizi, doveva essere uno dei migliori nella mia città. Il giorno in cui sono andata nel suo studio ho pensato a quanto fosse diverso il trattamento quando paghi dei gran soldi per una visita, però mi sono sentita più al sicuro. Dopo avermi visitata, il medico mi ha detto che c’era stato un aborto spontaneo a sei settimane e che era completamente inutile prendere il progesterone. Mi ha detto di sospendere la cura e di richiamarlo dopo una settimana, perché sicuramente nei giorni seguenti alla sospensione sarebbe arrivata la perdita definitiva di sangue dovuta all’aborto.
Ho continuato a stare a casa, pronta a correre al pronto soccorso da un momento all’altro. Ogni volta che andavo in bagno ero terrorizzata ma di contrazioni neanche l’ombra e neppure una minima traccia di sangue.
Dopo una settimana ho telefonato al medico privato e gli ho detto che la tanto attesa perdita non c’era stata così lui mi ha dato immediatamente un appuntamento per il lunedì seguente nell’ospedale in cui lavora, così da essere pronti nel caso fosse stato necessario un raschiamento.

La visita con il privato in ospedale

Il lunedì mattina sono andata in ospedale e sono arrivata quaranta minuti prima del previsto. Mi sono seduta nella sala d’attesa e ho visto passare il medico privato che avrebbe dovuto visitarmi. Quando l’ho visto mi sono tranquillizzata, ho pensato che si sarebbe preso cura di me in quella situazione così complicata fisicamente e psicologicamente. Dopo un’ora, nonostante avessi già comunicato anche all’infermiera di avere un appuntamento con lui, nessuno si è fatto vedere. Io e mio marito siamo andati a chiedere e l’infermiera ci ha risposto che quel dottore era appena andato in sala operatoria per un intervento. A quel punto sono andata nel panico. Ho chiesto per quale motivo durante quell’ora di attesa non mi aveva visitato e mi è stato risposto che era colpa mia, che quando l’ho visto passare avrei dovuto sbracciarmi per attirare la sua attenzione. Perché ovviamente non bastava il fatto che lui mi aveva dato un appuntamento e che avevo anche avvisato l’infermiera. Ero io che dovevo sbracciarmi, non loro che dovevano chiamarmi come mi avevano detto prima che entrassi in sala d’attesa.
A questo punto ho chiesto cosa dovevo fare e loro mi hanno detto che potevo aspettare lui, che ne avrebbe avuto per cinque ore, oppure farmi visitare da un altro medico passando per il pronto soccorso. Inutile scrivere quanto ho pianto e quanto ho urlato davanti a tutti, minacciando di chiamare immediatamente i carabinieri se non mi facevano subito visitare da qualcuno. Al pronto soccorso ginecologico, intanto, non avevano medici disponibili per cui mi hanno liquidata dicendomi che se avevo un appuntamento con un medico era solo un problema suo e non loro. Intanto passavano le ore e nessuno mi visitava. Fino a quando, mentre mi lasciavo andare all’esasperazione per la rabbia e lo sconforto che avevo lasciato esplodere, un medico si è reso conto di cosa stava succedendo e si offerto di visitarmi lui. Mi ha detto che il giorno dopo sarei dovuta tornare per un day hospital in cui mi avrebbero sottoposto ad un aborto farmacologico.
Quando sono uscita dalla stanza ho incontrato il medico privato tanto elogiato su internet che era uscito dalla sala operatoria e gli ho chiesto spiegazioni. La sua risposta è stata che se non si era presentato era solo colpa mia, perché avrei dovuto mandargli un messaggio su Whatsapp per ricordargli l’appuntamento. Poi ha girato i tacchi e se ne è andato. Spero che al compleanno gli abbiano regalato un’agenda, perché non si è mai visto che i medici danno gli appuntamenti e invece di scriverseli sono i pazienti che glieli devono ricordare.

Day Hospital e aborto farmacologico

Il giorno della terapia farmacologica ero molto spaventata e anche molto stanca, perché era quasi un mese che mi trovavo in quella situazione. Mi hanno ricoverata e mi hanno somministrato queste pastiglie per via vaginale, poi sono dovuta stare a letto in attesa delle contrazioni.
Dopo qualche ora è entrata una donna nella mia stanza e le ho chiesto se dovevo ancora stare a letto o se potevo alzarmi e andare in bagno. Lei mi ha risposto di non muovermi, di continuare a stare a letto e di aspettare. Dopo un’altra ora, durante l’orario di visita, mio marito va a chiedere alle infermiere, che chiedono cosa ci facevo ancora a letto immobile. Quando ho descritto la donna che mi aveva detto di rimanere a letto loro mi hanno risposto che non avrei dovuto ascoltarla perché era una che lavorava in mensa e non un’infermiera. Come se fosse normale che una della mensa va a dare consigli alle pazienti. Tutto questo, tra l’altro, dopo che agli esami pre-ricovero mi ero sentita trattare come una donna pessima perché erano tutti convinti che il mio fosse un aborto volontario e non spontaneo. Che anche fosse stato volontario, nessuno avrebbe dovuto giudicarmi in quel modo.
In ogni caso alle cinque del pomeriggio, alla visita di fine day hospital, io non avevo ancora avuto contrazioni e la mia situazione non era cambiata per niente. La dottoressa che mi ha visitata mi ha detto di aspettare ancora una settimana e mi ha dato altre pastiglie da prendere a casa per farmi venire le contrazioni. Ho trascorso un’altra settimana (la quarta) a casa nel panico che da un momento all’altro potessero partire le contrazioni, ma non è accaduto nulla.

Il raschiamento

A distanza di una settimana dal day hospital sono tornata in ospedale per una nuova visita. La dottoressa mi ha detto che potevo decidere se ritentare con il farmacologico o passare al raschiamento, cosa che mi consigliava. Io ero talmente stanca della situazione, talmente devastata psicologicamente e talmente spaventata da una possibile infezione, che ho deciso di fare il raschiamento. Eravamo nelle vicinanze del ponte del 25 aprile e la dottoressa mi ha detto che con il fatto del ponte e di molti medici che non c’erano avrei dovuto aspettare ancora una settimana per effettuare l’intervento. Non l’ho accettato e le ho detto che pretendevo di farlo immediatamente o al massimo il giorno seguente, ma che non avrei mai e poi mai aspettato un’altra settimana o addirittura dieci giorni per uno stupido ponte. A quel punto, vedendo il livello di rabbia e sfinimento che mi stava assalendo, la dottoressa ha iniziato a fare qualche telefonata ed è riuscita a mettermi in lista per il raschiamento il giorno stesso. Dopo l’intervento non capivo più niente per via dell’anestesia, ma la sensazione più forte, che a distanza di mesi provo ancora, è stato il senso di svuotamento totale.
So che ormai nella mia pancia c’era solo “materiale abortivo”, come lo chiamavano i medici, ma quando mi è stato rimosso, quando sono finalmente stata ripulita, ho provato un senso di vuoto incolmabile.

Aborto spontaneo e sfera psicologica

Il mio aborto è stato lungo e psicologicamente devastante. Due settimane di confusione in cui nessuno sapeva dirmi se la gravidanza si era interrotta oppure no. Intere settimane senza muovermi. Altre due settimane di visite e di terapie. La paura di una possibile infezione. Ma quello che mi ha fatto più male in assoluto, oltre alla perdita in sé, è stata la totale assenza di sensibilità e di umanità da parte del personale medico. Nessuno in quegli attimi così dolorosi, mi ha mai chiesto come stavo. Nessuno mi ha mai tranquillizzata. Mi hanno lasciata ore intere su una barella a sentire i bambini appena nati piangere e a guardare il via vai di parenti felici che festeggiavano le nascite. Hanno sbagliato gli esami, si sono dimenticati di scrivere le dimensioni della camera gestazionale, non ricordavano chi ero da una visita all’altra. Mi hanno dato appuntamenti a cui non si sono presentati, mi hanno detto più volte che dovevo tornare al pronto soccorso, mi hanno presa in giro, umiliata e spinta a provare rabbia sopra al dolore, fino ad arrivare a minacciare di chiamare le forze dell’ordine. Io spero che non sia così in tutti gli ospedali. Sono sicura che ci sono tanti medici e tante ostetriche umani e sensibili. Ma non ho avuto la fortuna di incontrarle in un momento in cui volevo solo sentirmi al sicuro ed essere abbracciata.

Avevo tanto bisogno di raccontare la mia storia, da un lato per potermi sfogare personalmente ma anche perché penso sia giusto parlarne e perché penso che altre donne che vivono questa situazione non devono sentirsi sole oppure giudicate. Sono dell’idea che i ginecologi e le ostetriche dovrebbero essere istruiti da degli psicologi, perché l’aborto spontaneo non è solo una cosa fisica, ma una cosa psicologica. Il dolore non è tanto nel corpo, quanto nel cuore. E nessuno dovrebbe essere abbandonato in questo dolore. Né giudicato. E non sono servite a nulla tutte le frasi stupide che mi sono sentita dire: “Era solo di sei settimane“, “Sei giovane hai tempo per riprovarci“, “In fondo non era ancora formato“. Quel bambino era incredibilmente desiderato e dal momento che ho scoperto di essere incinta l’ho amato con tutto il mio cuore. Mi sarei aspettata molto più riguardo nei miei confronti, ma purtroppo non è stato così. Il mio aborto spontaneo è durato un mese ed è stato psicologicamente devastante. In molti non possono capirlo e l’ho visto sia tra i medici, che tra parenti e amici. Ma si tratta a tutti gli effetti di un lutto e come tale dovrebbe essere trattato. Parlare di questa esperienza, aprirsi così tanto, non è per niente facile. Ma forse, tenere tutto dentro, è ancora peggio. Parlare con altre donne che hanno vissuto la stessa o una simile esperienza può far bene ed è quello che spero accada con la pubblicazione di questo articolo.

Oggi è il giorno del termine e io penso al mio piccolo, che non ho potuto conoscere ma che ho amato con tutto il mio cuore fin dal primo minuto e che continuo ad amare e ad immaginare.

Chiara

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